REPORT DAI PROCESSI A ISTANBUL 10/5/2018
REPORT TURCHIA – Istanbul 10/5/18
ISTANBUL: UN GIORNO IN CORTE
Nella vita di un paese, mettiamo la Turchia, prendendo in considerazione un determinato settore, mettiamo quello giudiziario, vi sono delle date in cui sembrano convergere molte spinte che premono da tempo. Per la giustizia in Turchia questa data è stata il 10 maggio.
Nel faraonico nuovo Tribunale di Gialayan a Istanbul, nelle 36 corti penali che siedono quasi quotidianamente, dandosi da fare per amministrare una giustizia che è osservanza dei desiderata politici, perseguita da zelanti procuratori, nello stesso giorno si sono celebrati i seguenti processi:
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un processo contro 18 avvocati per propaganda terroristica e manifestazione non autorizzata;
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un processo contro 12 avvocati per associazione sovversiva;
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un processo contro i 46 difensori curdi di Ocalan per offesa alla nazione: processo che va avanti da anni, da quando cioè quei difensori chiesero che il processo si svolgesse in curdo (cosa che poi fu ottenuta);
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5 processi contro gli accademici che firmarono un appello (in più di mille) per la pace e si sono ritrovati indiziati e poi rinviati a giudizio in più di 300 e spesso licenziati dalle rispettive università;
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infine un processo contro un poliziotto che nel 2013 uccise un ragazzo che protestava a Gezi Park.
Come è facile vedere in una mattina al palazzo di giustizia erano evocate tutte le contraddizioni e i drammi della Turchia di questi ultimi anni. Impossibile per chiunque seguire tutti i processi. Ma ogni Tribunale è paese ed anche in Turchia i magistrati sono esperti nell’arte del rinvio.
Il processo contro il poliziotto non si apre nemmeno. Quello contro i 46 avvocati curdi viene rinviato di nuovo per raccogliere altre prove documentali. Quelli contro gli accademici (talora contro uno solo, talaltra contro più imputati riuniti) si celebrano, ma non si concludono: altri accademici hanno già avuto condanne non indifferenti (1-3 anni) in primo grado.
Quello contro i 12 avvocati rei di associazione sovversiva viene rinviato perché alcuni degli imputati compaiono anche nel cosiddetto “processo per propaganda” che vede alla sbarra 18 colleghi e dunque non possono celebrarsi contemporaneamente i due processi.
L’insieme dei processi contro gli avvocati e accademici da già una prima idea della considerazione in cui sono tenuti la libertà di espressione e il diritto di difesa: perché di questo si tratta, di fatti materiali non ce ne è nemmeno l’ombra, se non una modesta e spontanea manifestazione non autorizzata.
Decido dunque di concentrarmi sul processo contro i 18 colleghi imputati per avere inscenato una manifestazione in pieno centro, sotto il Consiglio dell’Ordine di Istanbul, il 15 settembre 2016 per protestare contro i bombardamenti che infierivano sulla cittadina curda di Cizre. Si radunarono circa 300 avvocati e pacificamente intonarono una canzone di protesta, gli fu intimato di cessare di cantarla, ma il coro aumentò di volume. La canzone, dice la polizia, è tipica del partito curdo PKK, messo al bando in quanto terrorista: una specie di “Bella Ciao”, mi si dice; da qui l’imputazione di propaganda al terrorismo (fino a 6 anni).
E’ la prima udienza, sono presenti 7 avvocati imputati, tutti giovani, difesi da una decina di colleghi altrettanto giovani. Sono presenti numerosi colleghi come Osservatori Internazionali. Dall’Italia, purtroppo, uno solo. La corte sembra ragionevole, lontana da quel comportamento bestiale che caratterizza altre corti in Turchia. In videoconferenza dai rispettivi carceri sono collegate due colleghe detenute per altra causa. Esse protestano e dichiarano che non rilasceranno dichiarazioni - cui hanno diritto in esordio del processo - se non trasferite in aula: ”faccia a faccia”, esse dicono.
Parlano gli avvocati sul capo di imputazione, rilevando l’arbitrarietà dei riconoscimenti (18 su 300, ma perché?), ma soprattutto rilevando come non sia stato nemmeno chiesto il nulla osta e l’autorizzazione a procedere del Ministero della Giustizia, necessario quando si intende trarre a giudizio un avvocato per comportamenti tenuti nello svolgimento del suo ruolo. L’argomentazione non è peregrina ed è ben articolata, richiamando il trattato dell’Avana e sostenendo come denunciare la violazione di diritti fondamentali (come avvenne a Cizre) sia un dovere basilare dell’avvocato, dentro e fuori dalle aule di giustizia. Basti pensare che per i fatti di Cizre pendono innanzi alla Corte EDU ben 34 ricorsi. In più si invoca anche un precedente giurisprudenziale favorevole.
L’eccezione, però, viene rigettata con ordinanza e con la sintetica motivazione che alla manifestazione non erano nelle loro funzioni, e il processo continuerà l’8 novembre con l’ordine di trasferire in aula anche i detenuti, oggi comparsi in videoconferenza, per raccogliere le dichiarazioni di tutti gli imputati.
Piccola nota: un giovane ma agguerrito collega ha già riportato una condanna definitiva a 11 mesi, con sospensione, per un tweet in cui chiedeva a Erdogan di cessare i bombardamenti contro i civili a Cizre. La colpa? Avere richiamato l’hashtag internazionale #babykilling”.
Alla fine della mattinata, come ogni giovedì, un folto gruppo di avvocati inscena una manifestazione di protesta davanti al Tribunale: la chiamano “Stato della Giustrizia” e sinteticamente richiamano i processi politici o per reati di opinione che si sono svolti durante la settimana, con particolare attenzione ai processi contro gli avvocati. Discorsi, slogan di protesta, cartelli con i colleghi detenuti. Questo giovedì si fa anche l’elenco degli Osservatori Internazionali presenti ed una collega francese è invitata a parlare. Forse la nostra presenza non è stata inutile.
Ezio Menzione