Monitoraggio
La criminalizzazione dei movimenti a partire da Genova: intervista all'Avv. Gilberto Pagani
La criminalizzazione dei movimenti a partire da Genova: intervista all'Avv. Gilberto Pagani
Il G8 di Genova rappresenta uno spartiacque per intere generazioni: c’è una prima e un dopo Genova. E’ invero per quanto riguarda i sentimenti provati dalle persone che c’erano o che hanno assistito inermi alla mattanza in diretta su ogni media, è innegabile per ciò che concerne le pratiche politiche e l’organizzazione dei movimenti di protesta.
Genova è stata anche però l’inizio di una deriva securitaria da parte degli Stati nell’affrontare l’eterna questione dell’ordine pubblico e della sicurezza, sia tramite l’emanazione di leggi che permettano di rendere legali le pratiche repressive, sia tramite i processi giudiziari.
In Italia tale deriva securitaria oggi si manifesta perfettamente negli arresti No Tav degli scorsi mesi, come si è precedentemente manifestata all’estero, ad esempio, nella gestione del G20 di Londra ai casi di alta risonanza mediatica e più eclatanti come quelli delle torture legalizzate di Guantanamo e dell’assassinio legale e giustificato di Bin Laden.
- Le pratiche messe in atto in piazza contro le grandi proteste di massa hanno iniziato ad essere sempre più vicine alle pratiche militari: dai pestaggi indiscriminati, alla pratica anglosassone del “Kettling” (con la quale la Polizia accerchia “Militarmente” il nemico, nella specie i protestanti, spingendolo in un area delimitata senza via di fuga, usata, ad esempio, durante il G20 di Londra nel 2009); dall’utilizzo di infiltrati nei movimenti, dagli arresti e fermi preventivi alla istituzione di data-base dei dimostranti ed alla “schedatura” tramite fotografie durante i cortei e le proteste.
- I processi in Tribunale hanno visto esiti sempre più simili: impunità per chi commette reati nel nome del potere, estrema severità per gli altri; servano solo come esempio le altissime condanne italiane per i fatti del 15 ottobre 2011 e le assoluzioni dei vertici della Polizia per i fatti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova.
- Vi sono poi ulteriori pratiche che mirano alla neutralizzazione preventiva dei movimenti, tramite gli arresti e le perquisizioni preventive e attraverso il controllo dei social media in genere. In Spagna, per citare un esempio assai recente, si sta discutendo di ordine pubblico: tra le proposte al vaglio vi è anche quella di imporre dei controlli sui social network e convertire in reato penale ogni incitazione o organizzazione di protesta.
Nella società contemporanea si può parlare, così, di un vero e proprio “diritto penale del nemico” in cui si moltiplicano gli attentati ai diritti fondamentali e si sospendono le più basilari garanzie dei diritti della persona in ragione dell’emergenziale pericolosità del nemico stesso, giustificando così ogni atto da parte del potere.
Con il pretesto di proteggere l’ordine pubblico nascono nuove “figure pericolose”, che smettono di essere considerate persone per diventare esclusivamente “nemici” da neutralizzare.
Come spunto di riflessione su quanto detto si riporta l’intervista di Andrea Leoni per il E mensile all’Avv. Gilberto Pagani, membro del Legal Team Italia e dell’Associazione Avvocati Europei Democratici e da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani e dei movimenti di protesta.
Inoltre si segnala la conferenza intitolata “Criminal law of the enemy” che si terrà a Bruxelles in 25 maggio 2012 e si pubblica molto volentieri il link al video-intervista girato sempre da Andrea Leoni come promo al convegno. Buona lettura!
Come giudica le varie misure in materia di ordine pubblico che i governi europei, quello spagnolo in primis, si apprestano a discutere?
Diciamo che sia quello che si sta discutendo in Spagna sia una proposta di legge presentata recentemente in Italia da alcuni esponenti di centro destra sono delle leggi che inaspriscono di molto le pene per determinati comportamenti. In Spagna va fatta una notazione particolare: le violenze di strada sono equiparate ad atti di terrorismo. C’è da dire che lo Stato iberico ha una legislazione un po’ diversa dalla nostra, le leggi delle regione autonome son parecchio repressive. È però sicuramente in atto un inasprimento delle pene. Anche questa nuova proposta di legge che nessuno sa se verrà accolta e che è stata presentata da alcuni deputati di destra parlava di inasprire le pene per manifestazioni non autorizzate, per blocchi stradali per tutte quelle espressioni di lotta che sono comunemente condotte.
Infatti lei parlava nel documento dell’ottobre del 2004 ad un convegno di Bordeaux di una nuova concezione del reato associativo. In riferimento, invece, ai nuovi sviluppi soprattutto a quanto propone il governo Rajoy come vede questo nuovo andamento?
Molto male. Quel mio articolo che risale ad alcuni anni fa denotava tutte cose che ora sarebbero in corso di attuazione, ma ciò che è importante, è che c’è stato un mutamento di obiettivo. All’epoca tutta l’attenzione era data al terrorismo, o sedicente terrorismo, e alla lotta antiterroristica. Oggi, invece, gli aspetti sociali sono molto più importanti, perché l’aggravarsi della crisi sta comportando ovunque la presenza di un numero maggiore di proteste, anche molto più radicali e che tendenzialmente vengono punite in maniera più severa. Altra cosa importante è la militarizzazione. Come si vede in Italia questo concetto è pratica comune e in Val Susa c’è l’esercito ovvero un contingente di alpini reduci dall’Afghanistan. Che cosa ha a che fare l’esercito con l’ordine pubblico? Poi fondamentalmente c’è un’occupazione militare nel territorio per cui le installazioni per il tav sono considerate siti militari e quindi l’intrusione in questi luoghi viene considerata come intrusione in un sito militare. E’ una pesante presenza su tutto il territorio e purtroppo è una esempio di come la militarizzazione dell’ordine pubblico sia entrata nei programmi dei governi ed in particolar modo del nostro.
Non pensa che anche in Italia sia in atto una vera e propria criminalizzazione dei movimenti di protesta?
Certamente si. E il dato è drammaticamente importante, basti guardare la vicenda di Torino dove alcune persone sono ancora in carcere per reati di resistenza che non sono reati di violenza. Non c’è neanche una vera e propria accusa per i detenuti. Purtroppo è molto importante la sentenza che c’è stata circa un mese fa, quando a due giovani che furono arrestati dopo la manifestazione del 15 ottobre a Roma sono state comminate pene pesantissime: cinque anni con rito abbreviato, cioè otto anni secondo il rito ordinario. Pene che nessuno si attendeva e che vanno molto oltre la media di queste pene. Da parte della magistratura c’è un convinto adeguarsi rispetto a questa linea fortemente repressiva.
Fondamentale è anche il ruolo dei media.
La storia dei media è duplice da una parte i corportat media o i main stream che formano l’opinione pubblica e che per qualsiasi episodio minimo fanno nascere delle gazzarre e dei can can amplificando di molto. Ancora una volta la Val Susa è paradigmatica per molte cose: quando ad esempio ci sono dei piccoli scontri o magari vengono lanciati dei sassi, immediatamente i giornali ne parlano in prima pagina. Quando una manifestazione come quella di ottobre ha una partecipazione di decine di migliaia di persone, il fatto viene relegato nelle pagine interne e non viene utilizzato. Il problema è proprio questo: l’utilizzo di queste notizie. Ed anche il lessico è fondamentale, infatti succede spesso che ci siano delle contestazioni verbali, che rimangono solo verbali, che magari non saranno molto educate, ma rimangono solo verbali ripeto e che vengono bollate dai giornali come violenza e terrorismo. Dall’altra, i media indipendenti fanno in modo che quello che avviene sia sotto l’occhio di tutti, perché poi viene diffuso su tutta la rete in maniera virale tramite ogni mezzo. Ancora una volta dobbiamo risalire a Genova, la presenza di centinaia di persone che giravano con la telecamera ha fatto sì che si riuscisse ad avere ad una grande quantità di materiale che poi è stato molto utilizzato anche nei processi per smontare false accuse. Il caso della Grecia [il caso è del fotoreporter brutalmente picchiato dalla polizia, ndr] non è il primo. Chi cerca di documentare quel che succedendo può essere vittima delle attenzioni della polizia. Un ultimo episodio di questi giorni è poi che l’accesso al cantiere del tav è stato vietato ad alcuni giornalisti. Alcuni possono entrare e sono embedded (esattamente come in una situazione di guerra) altri invece non sono graditi dalle autorità e vengono bellamente esclusi privando il diritto di tutti noi quello di sapere ciò che accade.
La criminalizzazione dei movimenti di protesta
La criminalizzazione dei movimenti di protesta
23 aprile 2012 - E il mensile
Andrea Leoni
Le nuove misure che il governo Rajoy sta discutendo in materia di ordine pubblico, i vari arresti contro il movimento NoTav e le pesanti condanne dei fatti relativi dello scorso 15 ottobre oltre ai vari episodi di inasprimento delle condanne commutate contro chi ha partecipato a manifestazioni di protesta non fanno ben sperare. I nuovi provvedimenti mirano a contrastare, con una brutale repressione e in modo scientifico, ogni forma di protesta che risulti scomoda alle approvazione delle varie riforme lacrime e sangue dei Paesi europei. Per questo abbiamo parlato con l’avvocato Gilberto Pagani presidente dell’associazione Legal Team Italia.
Come giudica le varie misure in materia di ordine pubblico che i governi europei, quello spagnolo in primis, si apprestano a discutere?
Diciamo che sia quello che si sta discutendo in Spagna sia una proposta di legge presentata recentemente in Italia da alcuni esponenti di centro destra sono delle leggi che inaspriscono di molto le pene per determinati comportamenti. In Spagna va fatta una notazione particolare: le violenze di strada sono equiparate ad atti di terrorismo. C’è da dire che lo Stato iberico ha una legislazione un po’ diversa dalla nostra, le leggi delle regione autonome son parecchio repressive. È però sicuramente in atto un inasprimento delle pene. Anche questa nuova proposta di legge che nessuno sa se verrà accolta e che è stata presentata da alcuni deputati di destra parlava di inasprire le pene per manifestazioni non autorizzate, per blocchi stradali per tutte quelle espressioni di lotta che sono comunemente condotte.
Infatti lei parlava nel documento dell’ottobre del 2004 ad un convegno di Bordeaux di una nuova concezione del reato associativo. In riferimento, invece, ai nuovi sviluppi soprattutto a quanto propone il governo Rajoy come vede questo nuovo andamento?
Molto male. Quel mio articolo che risale ad alcuni anni fa denotava tutte cose che ora sarebbero in corso di attuazione, ma ciò che è importante, è che c’è stato un mutamento di obiettivo. All’epoca tutta l’attenzione era data al terrorismo, o sedicente terrorismo, e alla lotta antiterroristica. Oggi, invece, gli aspetti sociali sono molto più importanti, perché l’aggravarsi della crisi sta comportando ovunque la presenza di un numero maggiore di proteste, anche molto più radicali e che tendenzialmente vengono punite in maniera più severa. Altra cosa importante è la militarizzazione. Come si vede in Italia questo concetto è pratica comune e in Val Susa c’è l’esercito ovvero un contingente di alpini reduci dall’Afghanistan. Che cosa ha a che fare l’esercito con l’ordine pubblico? Poi fondamentalmente c’è un’occupazione militare nel territorio per cui le installazioni per il tav sono considerate siti militari e quindi l’intrusione in questi luoghi viene considerata come intrusione in un sito militare. E’ una pesante presenza su tutto il territorio e purtroppo è una esempio di come la militarizzazione dell’ordine pubblico sia entrata nei programmi dei governi ed in particolar modo del nostro.
Non pensa che anche in Italia sia in atto una vera e propria criminalizzazione dei movimenti di protesta?
Certamente si. E il dato è drammaticamente importante, basti guardare la vicenda di Torino dove alcune persone sono ancora in carcere per reati di resistenza che non sono reati di violenza. Non c’è neanche una vera e propria accusa per i detenuti. Purtroppo è molto importante la sentenza che c’è stata circa un mese fa, quando a due giovani che furono arrestati dopo la manifestazione del 15 ottobre a Roma sono state comminate pene pesantissime: cinque anni con rito abbreviato, cioè otto anni secondo il rito ordinario. Pene che nessuno si attendeva e che vanno molto oltre la media di queste pene. Da parte della magistratura c’è un convinto adeguarsi rispetto a questa linea fortemente repressiva.
Fondamentale è anche il ruolo dei media.
La storia dei media è duplice da una parte i corportat media o i main stream che formano l’opinione pubblica e che per qualsiasi episodio minimo fanno nascere delle gazzarre e dei can can amplificando di molto. Ancora una volta la Val Susa è paradigmatica per molte cose: quando ad esempio ci sono dei piccoli scontri o magari vengono lanciati dei sassi, immediatamente i giornali ne parlano in prima pagina. Quando una manifestazione come quella di ottobre ha una partecipazione di decine di migliaia di persone, il fatto viene relegato nelle pagine interne e non viene utilizzato. Il problema è proprio questo: l’utilizzo di queste notizie. Ed anche il lessico è fondamentale, infatti succede spesso che ci siano delle contestazioni verbali, che rimangono solo verbali, che magari non saranno molto educate, ma rimangono solo verbali ripeto e che vengono bollate dai giornali come violenza e terrorismo. Dall’altra, i media indipendenti fanno in modo che quello che avviene sia sotto l’occhio di tutti, perché poi viene diffuso su tutta la rete in maniera virale tramite ogni mezzo. Ancora una volta dobbiamo risalire a Genova, la presenza di centinaia di persone che giravano con la telecamera ha fatto sì che si riuscisse ad avere ad una grande quantità di materiale che poi è stato molto utilizzato anche nei processi per smontare false accuse. Il caso della Grecia [il caso è del fotoreporter brutalmente picchiato dalla polizia, ndr] non è il primo. Chi cerca di documentare quel che succedendo può essere vittima delle attenzioni della polizia. Un ultimo episodio di questi giorni è poi che l’accesso al cantiere del tav è stato vietato ad alcuni giornalisti. Alcuni possono entrare e sono embedded (esattamente come in una situazione di guerra) altri invece non sono graditi dalle autorità e vengono bellamente esclusi privando il diritto di tutti noi quello di sapere ciò che accade.
il manifesto - articolo sul convegno di Napoli 19/3/2011
Domenica 20 Marzo 2011
LA VIGILIA DEL G8 DI GENOVA Un convegno per ricordare i fatti
del 17 marzo 2001 a Napoli e quello che ne è seguito: le tecniche di
repressione sperimentate con gli ultras e applicate ai movimenti,
le zone rosse, l'assenza del reato di tortura, le legislazioni speciali
per controllare le rivolte contro le discariche e gestire il
dopo-terremoto a L'Aquila. In 10 anni, 16 mila attivisti denunciati e
6 mila rinviati a giudizio per le lotte sociali
NAPOLI - Il 17 marzo a Napoli non si ricorda l'unità d'Italia ma il Global forum del 2001, almeno
nell'area che si riconosce nelle lotte politiche e sociali. Quel pomeriggio, cioè, che anticipò il G8
di Genova sul piano della repressione violenta del dissenso. Ieri un convegno organizzato dal
Legal team Italia proprio a Napoli ha ripercorso l'ultimo decennio di politiche e legislazioni
speciali come pratiche riproposte poi, di volta in volta, sui territori in rivolta contro le discariche,
la Tav fino a L'Aquila del post terremoto. Dalla gestione delle manifestazioni in piazza, quindi, si
è passati alle proteste per il lavoro, alle comunità, il controllo sociale diventato un problema di
ordine pubblico.
È Livio Pepino, direttore di Quale Giustizia, a spiegare come molti dispositivi utilizzati dal 2001
in avanti siano stati sperimentati negli anni sulle tifoserie calcistiche, gruppi che non sollevano
particolari simpatie e quindi facilmente isolabili, dall'arresto in flagranza differita fino al daspo,
che a dicembre scorso si è proposto di estendere alle manifestazioni politiche. Soprattutto, il
reato di devastazione: «In Italia - spiega Pepino - era stato utilizzato quasi esclusivamente per i
terroristi altoatesini che mettevano le bombe ai tralicci, per le rivolte carcerarie e, naturalmente,
per gli hooligan». La gestione concordata della piazza è terminata quando è cominciata la
politica delle zone rosse: «Dal '46 al '77 - ricorda ancora - sono stati 142 i morti durante i cortei.
Dal '77 al 2001, cioè da Giorgiana Masi a Carlo Giuliani, non era più accaduto». A Genova è
successo qualcosa di diverso, che aveva avuto un suo precedente a marzo a Napoli, sotto un
governo di differente colore politico ma con la stessa gestione dell'ordine pubblico.
Piazza Municipio ridotta a una tonnara con, per la prima volta dopo decenni, anche carabinieri e
guardia di finanza a gestire la repressione, feroce. Nessun varco per scappare, manifestanti
colpiti con manganelli fuori ordinanza, inseguiti fin dentro il pronto soccorso degli ospedali. Il
processo terminato con la condanna in primo grado per sequestro di persona aggravato per i
funzionari, non tutti, una parte delle colpe sanate dalla prescrizione: «Perché l'Italia - ricorda
l'avvocato Liana Nesta - non ha recepito il reato di tortura. Portati nella caserma Raniero senza
conoscere l'imputazione, senza poter parlare con un legale, identificati e sottoposti ad angherie.
Tra i condannati in primo grado il vicequestore Fabio Ciccimarra, che metterà poi la molotov
nella Diaz a Genova».
E poi la ritorsione dello stato, perché quello che è successo nella città ligure è successo sotto
obiettivi e telecamere di giovani, reporter e mediattivisti, le bugie smascherate anche grazie a
una segreteria legale che ha fornito supporto tecnico nei diversi procedimenti. E allora arrivano
nel 2002 i processi di Cosenza e Taranto, dove si teorizza che un gruppo di sovversivi, dai
docenti agli operai, hanno cospirato da sud contro lo stato prima e durante i fatti di Genova:
«Hanno tirato - spiega l'avvocato Simonetta Crisci - fuori dal cassetto il reato di cospirazione,
un'accusa sufficientemente vaga da poter colpire chiunque, un arnese che ha funzionato dal
fascismo a oggi. I giornali, esibiti in aula, raccontavano dei Ros del generale Ganzer che
giravano le procure proponendo l'inchiesta, lo stesso accusato di traffico d'armi e droga. Di uno
degli accusati, Francesco Cirillo, avevano fatto la copia delle chiavi di casa per installare delle
cimici, dopo ogni incursione se le tenevano invece di riconsegnarle al pm, così entravano e
uscivano quando volevano». Un'accusa basata non su prove ma interpretazioni di
conversazioni, già bocciata due volte, ma portata lo stesso in appello.
In dieci anni, sono 16mila le persone denunciate, seimila rinviate a giudizio, per fatti che
riguardano le lotte sociali ricorda Italo di Sabato, dell'Osservatorio sulla repressione. Nel 2009 a
Teramo 39 ragazzi sono finiti nelle maglie della giustizia dopo uno scontro con Forza nuova e la
rottura di una vetrina, di cui 22 solo per aver esposto allo stadio uno striscione di solidarietà:
«La legalità come dichiarazione di guerra contro i poveri cristi». Napoli, Genova e poi le Torri
gemelle con la lotta planetaria al terrorismo che, dagli Usa all'Europa, impone la compressione
dei diritti civili, così spiega l'avvocato Ezio Menzione si arriva ad accettare come normali le
retate a tappeto, le zone off limits, gli arresti fuori flagranza, i controlli alle frontiere fino ai pastori
sardi bloccati a Civitavecchia per non farli arrivare a manifestare a Roma. Fino alle discariche
dichiarate zone militari, con le aggravanti per gli arrestati nelle vicinanze, aggravanti anche per
chi colpisce un agente di pubblica sicurezza, cose che capitano in una manifestazione, oppure
si fanno capitare.
Liberazione - articolo sul convegno di Napoli 19/3/2011
Checchino Antonini
Napoli - nostro inviato
La notizia che i caccia francesi siano già sui cieli della Libia piomba - e ne accresce l'attualità - sul convegno del Legal team Italia (gli avvocati riconoscibili dalla pettorina giallo-nera durante le manifestazioni) incentrato sulla relazione tra repressione nelle piazze e riscrittura dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro
Checchino Antonini
Napoli - nostro inviato
La notizia che i caccia francesi siano già sui cieli della Libia piomba - e ne accresce l'attualità - sul convegno del Legal team Italia (gli avvocati riconoscibili dalla pettorina giallo-nera durante le manifestazioni) incentrato sulla relazione tra repressione nelle piazze e riscrittura dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro. Le prove generali del salto di qualità nella gestione dell'ordine pubblico avvennero a pochi minuti da Castel dell'Ovo, location del convegno, giusto dieci anni fa. Il 17 marzo del 2001, per la prima volta, una manifestazione di massa venne caricata ferocemente dopo essere stata privata di una via di fuga. New entry, sulla scena del crimine, le fiamme oro accanto alle divise di polizia e carabinieri. Altra terrificante novità fu la caccia all'uomo negli ospedali e il rapimento (così stabilirà un tribunale nove anni dopo) di decine di feriti. Un'«attrezzeria» dispiegata a Genova qualche mese dopo e che da allora è stata perfezionata - lo ha delineato nella relazione introduttiva l'avvocato Ezio Menzione - nella dilatazione delle zone rosse intorno alle discariche, alle scuole, alle tendopoli dei terremotati aquilani. Una compressione dei diritti che trovò nuova linfa dopo l'11 settembre ma che è legata alla gigantesca riscrittura dei rapporti sociali che va sotto il nome di globalizzazione liberista.
Sul piano strettamente giuridico, la tendenza denunciata dal Legal team è quella per cui la «legge è sempre meno uguale per tutti». Le nuove aggravanti di clandestinità e di recidiva reiterata, infatti, segnano come il rischio di privazione della libertà sia incredibilmente più concreto per chi si trovi in posizioni marginali rispetto alla cittadinanza - gli stranieri - o alla collocazione sociale: i tossici, gli ultras, gli antagonisti. «La piazza è un luogo complicato - ha avvertito Livio Pepino, ex segretario di Magistratura democratica - ma negli ultimi anni è sfumato il confine tra le tipologie delle manifestazioni, dei moti di piazza, del riot». La mutazione nella gestione dell'ordine pubblico ha preso le mosse nella stagione della "tolleranza zero", che ha avuto ricadute nell'abbassamento del livello delle violazioni tollerate e ha fatto saltare la consuetudine della gestione concordata della piazza. Frutto avvelenato di quella stagione, ha segnalato Liana Nesta, avvocato di parte civile per la mattanza di Piazza Municipio, è anche l'«immunità funzionale», l'impunità, pretesa dagli operatori di polizia.
Nei dieci anni presi in esame, le novità giuridiche, come la propensione crescente dei pm a farsi strumento delle polizie, hanno preso le mosse comunque da vecchi arnesi come il Codice Rocco di epoca fascista, cuciti su misura per perseguitare gli attori del conflitto sociale. Un esempio per tutti, quel reato di cospirazione appiccicato agli imputati del Sud Ribelle, fa presente la loro legale Simonetta Crisci. Quegli arnesi, spesso, sono così obsoleti da non condurre in galera, perché «i cattivi pensieri non si possono punire», ha detto Sergio Moccia, professore alla Federico II, ma «la vera pena - ha aggiunto - è il lunghissimo processo che attende gli inquisiti». «Dai processi di Genova «è emerso anche che, per le forze dell'ordine, guerra e ordine pubblico sono la stessa cosa», ha spiegato Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, ucciso a Genova da uno dei carabinieri che avevano aggredito un corteo regolarmente autorizzato. Da allora Haidi non smette di reclamare un processo, di mettere in collegamento le vittime dell'ordine pubblico e di denunciare come la repressione sia indice della debolezza della democrazia.
Le cifre - sedicimila denunciati e seimila rinviati a giudizio per reati legati al conflitto - rivelano la dimensione della repressione sperimentata in primo luogo sugli ultras del calcio. La composizione della popolazione carceraria e la mole dei morti dietro le sbarre, i ripetuti casi di malapolizia (Cucchi, Aldrovandi, Uva ecc…) pongono l'urgenza di «una nuova stagione di garantismo», ha suggerito Italo Di Sabato che cura l'Osservatorio repressione del Prc.
«Ma perché, è legale il ricatto di Pomigliano?», si domanda Antonio Di Luca della Fiom, testimoniando la solitudine dei lavoratori nel deserto politico della post-democrazia. E' il lavoro ai tempi dello «stato terminale del diritto del lavoro». La storia degli ultimi dieci anni - descritta da un'avvocata del lavoro, Marina Paparo, e da una docente precaria dell'Unical, Antonella Durante - è anche la storia di come, dal pacchetto Treu al Libro bianco di Maroni fino al collegato lavoro e all'attacco frontale al contratto collettivo nazionale si sia prodotta una mutazione genetica del giuslavorismo, con il medesimo autoritarismo esibito in ordine pubblico.
Le radici dell'attacco risalgono sia alla sconfitta dell'80 alla Fiat sia alla concertazione del '93, che introdusse le prime deroghe al ccnl su cui Marchionne ha potuto scardinare Pomigliano e Mirafiori. Nel mirino c'è sempre il conflitto sociale, che poi è lo stesso obiettivo del sistema elettorale bipolare. Anche la choc-economy, testata a L'Aquila e nell'emergenza rifiuti napoletana, tende a sperimentare il governo autoritario del territorio per imporre interessi forti e la privatizzazione dei beni comuni. «E' ora di uscire dall'emergenza visto che non serve a risolvere le emergenze», ha spiegato, concludendo, Gilberto Pagani, presidente del Legal team (che pubblicherà i materiali sul suo sito), rimandando al prossimo appuntamento genovese per una riflessione internazionale da cui, finalmente, escano appunti per una piattaforma.
Dal Manifesto - Ezio Menzione sulle sentenze d'appello di Genova
Le tre sentenze d’appello di Genova sul G8
di Ezio Menzione
25 condannati su 26 imputati per la “macelleria cilena”, come fu definita, da uno degli stessi imputati, quella tragica notte nella scuola Diaz, quando la polizia, apparentemente senza alcun motivo, assaltò l’edificio in cui stavano ormai dormendo cento esausti manifestanti, dopo due drammatiche giornate in cui avevano dovuto subire violenze e arresti per le vie di Genova. E assaltò anche l’edificio di fronte, la scuola Pascoli, dove avevano sede le associazioni che organizzarono il Genoa Social Forum.
Siamo alla terza sentenza importante emessa dalla Corte d’Appello di Genova per ciò che accadde attorno al G8 genovese alla fine del luglio 2001 ed essa ha portato alla condanna con pene significative (anche se “mangiate” dall’indulto o dalla prescrizione) non solo dell’ispettore Canterini e dei suoi “boys” della squadra speciale che fece materialmente l’irruzione (già condannati in primo grado), ma anche di tutti gli altri imputati (meno uno), compresi – praticamente il primo caso in Italia – i gradi intermedi della filiera di comando dell’operazione e di tutti coloro che si dettero d’attorno per firmare arresti ingiustificati e quindi falsi o si inventarono di sana pianta alcuni fatti come attribuire agli ignari manifestanti all’interno dell’edificio il possesso di tre bottiglie molotov o l’aggressione con un coltello ad un agente. Insomma, la linea di difesa dei poliziotti è stata del tutto sbugiardata e le loro responsabilità sono state pienamente riconosciute.
Sono passati 9 anni da quando gli “8 grandi” si riunirono a Genova nei loro palazzi blindati, mentre centinaia di migliaia di manifestanti si riunivano per contestare sia la loro titolarità a prendere decisioni per l’intera umanità che le linee stesse di tali scelte. Fu, in pratica, l’ultimo G8. Da allora – grazie anche a quella contestazione – risultò chiaro quanto meno che così pochi non potevano decidere per tutti. Nel corso di questi 9 anni il numero di convitati a simili simposi si è andato allargando e oggi nessuno potrebbe pensare di decidere qualcosa senza Cina o India o Brasile e altri ancora. Lo slogan di allora, “Voi 8, noi tre miliardi”, evidentemente coglieva nel segno. Così come coglieva nel segno l’analisi di allora, quella fatta a caldo: a Genova in quei giorni si era sospeso ogni diritto individuale e collettivo, la democrazia in quel luogo, in quei momenti era stata annullata e calpestata. Aggiungiamo che, fortunatamente, dopo di allora ciò non è più accaduto e anche questo, forse, in parte almeno, è il risultato positivo delle denunce di allora. Tanto più positivo perché questi 9 anni, invece, sono stati caratterizzati dall’erosione della nostra democrazia. Ma erosione non è uguale ad azzeramento.
I fatti di allora sono ormai cristallizzati in 6 sentenze di merito (tre di primo e tre di secondo grado) che riguardano il comportamento in piazza dei manifestanti (più esattamente di 25 manifestanti), l’assalto della polizia alla scuola Diaz e le violenze su cittadini inermi detenuti a Bolzaneto. La ricostruzione operata da queste sentenze ben difficilmente potrà essere grandemente modificata in futuro dal punto di vista giudiziario. Chi andrà in Cassazione, siano manifestanti o poliziotti, potrà ottenere l’annullamento di una sentenza o di parte di essa per motivi di diritto, ma la ricostruzione quella è e quella rimarrà.
Ma questa ricostruzione storico-giudiziaria corrisponde a ciò che tutti ricordiamo che accadde in quei drammatici giorni? A me pare di sì, almeno a grandi linee. Vediamola un po’ più da vicino.
I presunti black block e i fatti di strada: per quanto riguarda i manifestanti (teniamo presente che i processati erano 25 rispetto a centinaia di migliaia) corrisponde al vero che alcuni si lasciarono andare ad atti gratuiti di vandalismo, come succede in molte occasioni, ma in forma più grave. Così come corrisponde al vero che la reazione talora violenta dei manifestanti fu scatenata dal comportamento illegittimo e gratuitamente violento delle forze dell’ordine. Infatti proprio per questo motivo solo alcuni dei 25 sono stati pesantemente condannati, mentre altri, per altri episodi, sono stati assolti. Le tante sentenze sui cosiddetti “fatti di strada” – in genere rubricati sotto “resistenza” – in cui prevalgono nettamente le assoluzioni dei presunti manifestanti aggressori, attestano ulteriormente degli arbitrii e degli arresti pretestuosi compiuti dalle forze dell’ordine.
Bolzaneto: la responsabilità di molte delle forze che avevano in mano la caserma (si tratta di appartenenti a diversi corpi) è stata riconosciuta e sanzionata. Lo stesso vale per quanto riguarda la Diaz. E in ambedue i casi non è stata condannata solo la bassa manovalanza, ma anche i responsabili sul campo. Le condanne non sono state moltissime anche perché la polizia ha sempre boicottato le indagini dei magistrati. Purtuttavia siamo di fronte a una novità del tutto inedita rispetto all’abitudine dell’insabbiamento in casi simili, soprattutto per i gradi alti. Senza volere fare analogie, ma pensiamo che l’indignazione attorno al caso Cucchi ci sarebbe stata se il processo di Bolzaneto non avesse svelato ciò che può accadere quando si è in mano a chi dovrebbe custodirci?
La scuola Diaz: la ricostruzione è stata più complessa perché risultava incomprensibile l’intero episodio. Oggi l’ultima sentenza ci ha detto che l’ordine della mattanza ci fu; i gradi intermedi sapevano ciò che sarebbe accaduto e lo vollero, per “recuperare” quella che loro consideravano la debolezza dimostrata “sul campo” nei due giorni precedenti; e che altri cercarono di occultare le responsabilità.
Non siamo molto lontani da come le cose effettivamente andarono, per il bene (poco) e per il male (moltissimo). Si può dunque essere moderatamente soddisfatti di questo faticosissimo cammino giudiziario. Finora, in genere, in altri casi tutto rimaneva avvolto nella nebbia più profonda. Qua l’abbiamo diradata: a sprazzi e solo in parte, ma le linee accertate sono chiare.
Eppure, ci rimane un senso di insoddisfazione, anche di fronte ad una magistratura che si è espressa ricostruendo almeno parte della verità sui fatti di allora.
Il tempo: il primo motivo di insoddisfazione salta agli occhi: 9 anni sono davvero troppi. Chi si straccia quotidianamente le vesti per la durata dei processi e trova così la scusa per ridurre le garanzie del cittadino imputato dovrebbe riflettere su questa durata record.
I responsabili in alto loco: secondo motivo: non si è indagato sulle responsabilità apicali. Fatti così gravi come la Diaz, Bolzaneto e la tenuta dell’ordine (si fa per dire) in piazza durante il G8 non avvengono senza coinvolgere ora per ora, minuto per minuto chi aveva in mano il potere di indirizzo generale (i ministri competenti, soprattutto Fini, Scajola e Castelli: tutti e tre presenti a Genova in quei giorni e le direzioni ad essi afferenti). Tanto ciò è vero che vi è il forte sospetto che quei vertici, ancora molti anni dopo, abbiano tentato di manipolare i processi genovesi.
Le pene. Duri con gli uni e morbidi con gli altri: stride che nessuno del fronte dell’ordine andrà mai in carcere per ciò che ha fatto (del resto, questo era lo scopo dell’indulto del 2006: creare un paracadute per i poliziotti di Genova), mentre una decina di manifestanti sono stati condannati a pene che di solito si comminano solo per omicidio, mentre, pur ammettendone la responsabilità, non poteva non riconoscersi che si trattava di aggressione a beni materiali e mai a persone e dunque dovevano essere trattati con maggiore equanimità. Oggi, alcuni giovani andranno in galera per molti anni, mentre i rappresentanti delle forze dell’ordine condannati sono ai vertici dei rispettivi corpi di appartenenza e non faranno un giorno in carcere.
Le promozioni: in Italia, si sa, nessuno paga fra i governanti, ma questi hanno fatto una carriera folgorante. Certo, è il segno che questo manipolo di uomini poteva e può – come si dice volgarmente – “tenere per le palle” i propri superiori ed il loro silenzio andava retribuito.
Magistratura e politica: in genere, colpisce come a fronte di una magistratura che faticosamente ma onestamente si è espressa, il mondo della politica (tutto, ricordiamoci le titubanze della sinistra sull’istituzione di una commissione di inchiesta, che infatti non c’è mai stata) ha fatto quadrato attorno ai responsabili delle nefandezze. Ricordiamo che il massimo responsabile di tutto ciò che è accaduto a Genova in quei giorni, l’allora capo della polizia e oggi capo dei servizi segreti De Gennaro è rimasto sempre al suo posto, sia coi governi di destra che con quelli di sinistra. Evidentemente, tanto per usare il termine adoprato sopra, “tiene per le palle” tutti i politici.
Il punto più dolente: nulla è stato chiarito circa la morte di Carlo Giuliani. Non è un caso che si è trattato dell’unico episodio (il più grave) su cui non si è fatto il processo. In questo caso, certamente, vi sono state responsabilità anche della magistratura genovese. Il non avere celebrato un processo sull’assassinio di Carlo costituirà sempre un limite, un vulnus per chi, anche storicamente, vorrà ricostruire quei drammatici giorni genovesi.